BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 19/10/2009

 

IL PROGETTO COME TORRE PENDENTE

di Francesco Varanini

Cosa è il progetto: anche di fronte al progetto, così come ci accade di fronte a idee che  ci appaiono consolidate, si finisce per perdere attenzione. Si danno così per scontati metodologie e strumenti di governo del progetto (Project Management) che, pur essendo sotto molti punti di vista efficaci, mostrano da altri punti di vista la corda. In special modo appare interessante leggere il progetto alla luce delle riflessioni sulla complessità: appare in fondo paradossale intendere il progetto -che è  divenire, costruzione, emersione di qualcosa che non c'è ancora- come esecuzione di un programma  esaustivamente descritto prima dell'inizio dei lavori. In questo senso, la vicenda della Torre di Pisa mi pare esemplare.
Sul tema Project Management e complessità ho condotto, per il Project Management Institute Northern Italy Chapter (http://www.pmi-nic.org/), a partire dall'inizio del 2008, un gruppo di lavoro che ha visto coinvolti dodici Project  Manager. Frutto di questa attività, un libro,(1) da cui estraggo il frammento che potete leggere di seguito, e -il 6 novembre 2009- un convegno. (2)

Il migliore dei progetti possibili: la torre di Pisa
Nel 1063, quando la città primeggiava nel mondo cristiano per potenza politica e militare, per prosperità economica e per produzione culturale, i pisani decisero di dar inizio alla costruzione del nuovo Duomo. Iscrizioni murate nella facciata lodano l’architetto Buscheto, sepolto in un sarcofago romano rilavorato, facente parte della stessa facciata. Buscheto è esaltato come superiore a Ulisse e Dedalo, non solo per la sua pura arte, ma per la sua attitudine al progetto: viene specialmente lodata la perizia con cui seppe provvedere al trasporto per mare e per terra delle enormi colonne, ovviando anche alle imboscate genovesi e saracene.
Non a caso la lode a Buscheto culmina nel nel verso: “Non habet exemplum niveo de marmore templum”, non ha prototipo né paragone questo tempio di marmo candido. Si sta parlando qui dell’eccezionalità dell’opera, che imponendo un proprio stile, romanico pisano, vuole emulare le grandi architetture della Roma imperiale e dell’Islam, e che compete, per proporzioni e complessità, con i massimi templi della cristianità, la prima basilica di San Pietro, Santa Sofia di Costantinopoli. Ma si sta parlando, anche, di un aspetto essenziale di ogni progetto: del progetto, di ogni progetto, non habet exemplum. Ogni progetto è un unicum, uguale solo a se stesso, è un prototipo, un capolavoro.
Nel 1118 il Duomo è consacrato. Nel 1152 iniziano i lavori del Battistero. Anche qui, fortunosi viaggi per mare, difficile trasportare le grandi colonne monolitiche di granito impiegate nella costruzione. Interessante per noi il coinvolgimento dei ‘portatori di interessi’, che sono in fondo tutti i pisani. Così, narrano le cronache, nel 1163 è istituita la tassa mensile di un denaro per nucleo familiare, e per la messa in opera delle colonne sono organizzate corvées nei quartieri.
Finalmente, il 9 agosto 1173 viene posato il primarium lapidem, la prima pietra del Campanile.
Dopo una decina di anni, quando la costruzione è giunta a circa un metro e mezzo del terzo ripiano, si è costretti a sospendere il lavoro. La torre, a causa del terreno instabile e acquitrinoso, si è inclinata paurosamente, nonostante le correzioni della pendenza messe in atto in corso d’opera. Si decide per una mesta soluzione: la torre mozza ed inclinata è coperta con una cupoletta, lì vengono montate le campane.
Devono passare cinquant’anni prima che, constatato che il troncone è saldo, e che l’affondamento non si aggrava, si prenda in considerazione la possibilità di riaprire il cantiere. I lavori riprendono, probabilmente tra il 1272 e il il 1275. Ma l’inclinazione, sebbene in modo discontinuo, si accresce. Così ancora una volta, di nuovo dopo una decina di anni di lavoro, giunti ora al quinto ripiano -nonostante la cura posta nel controbilanciare la pendenza con scelte statiche che sfruttano  al massimo le tecnologie disponibili-, si è costretti ad una soluzione di ripiego: si trova a quel livello una collocazione per le campane, e si sospendono i lavori.
La leggenda, più che la storia, vuole che questo avvenga nell’anno più infausto per la storia di Pisa. Il 6 agosto 1284 la Repubblica pisana è sconfitta dalla rivale Repubblica di Genova nella battaglia della Meloria (bassi scogli al largo di Livorno). Non fu solo la perdita di 49 galere, non furono solo i seimila morti, gli oltre diecimila prigionieri. Fu per Pisa l’inizio del declino.
Eppure i lavori in piazza del Duomo proseguono. Nel 1277 erano state poste le fondamenta dell’ultimo edificio della mirabile piazza, il Camposanto. Ma per una nuova apertura del cantiere della Torre si deve attendere ancora. Le fonti, lacunose, spingono a datare l’ultima ripresa attorno al 1370, giusto duecent’anni dopo l’inizio dei lavori, e cent’anni dopo il secondo ciclo.
Una sesta loggia si aggiunge alle cinque già edificate. E sopra la sesta loggia, con evidente funzione di elemento terminale della costruzione, la cella campanaria. La correzione della pendenza, già presente nel sesto ripiano, è sensibilissima nella cella. 
Conosciamo i nomi dei primi progettisti e costruttori degli altri tre edifici:il Duomo, il Battistero, il Camposanto, ma del Campanile no. Né una iscrizione sull’edificio, né un documento degli storici locali ci dà notizia certa del nome. Dobbiamo ragionevolmente attribuire questo silenzio alla vergogna o alla censura, sempre conseguenze di quello che fu inteso come un grave infortunio tecnico: la torre che si inclina, il progetto realizzato che fatalmente si allontana dal progetto pensato a priori.
Nel 1800 vengono effettuati dei lavori che riportarono alla luce parte del basamento interrato. Fu un grave errore che alterò la stabilità della torre, accelerandone il processo di inclinazione. Così, tra il 1990 al 2001, è aperto un nuovo cantiere. Ancora una volta, le più avanzate tecnologie dell’epoca sono adottate per mantenere in piedi l’edificio, nonostante l’inclinazione. Lo spostamento laterale dall’asse, che aveva superato i cinque metri, è ora ridotto a meno di quattro. Si prevede che il cantiere non debba essere riaperto per trecento anni. Ma è meglio non sbilanciarsi in previsioni, perché la Torre di Pisa è in sé una sfida alla previsione, e alla purezza del progetto.
Proprio la pendenza, e cioè lo scostamento dal progetto come avrebbe dovuto essere realizzato, si rivela essere, al di là di ogni pretesa di controllo dei progettisti, l’origine della qualità dell’artefatto; la fonte della sua inattesa -anzi: non prevedibile- bellezza.
Tanto che, negli anni Trenta del 1800, ebbe luogo una vivace polemica. Poiché, secondo una diffusa concezione, non può esistere buon esito che non sia contemplato dal progetto, un erudito si accanì nel sostenere che la pendenza della torre era voluta, era prevista dal progetto. Fu presto smentito. (3)

La lezione della Torre di Pisa
Il progetto può essere tradotto in pratica solo se si accetta ciò che propone o impone l’ambiente. Ciò non significa che si debba rinunciare a prevedere: è sempre utile e costruttivo darsi obiettivi, è sempre utile esplicitare aspettative ed intenderle come vincolo di tempo, di luogo e di costo, di modo (ovvero: di tecnologia). Ma si deve restare disposti a rivedere qualsiasi aspetto della previsione, in qualsiasi momento. Solo rinunciando all’attaccamento a ciò che inizialmente si era pensato, si permette che venga alla luce un risultato. Il migliore dei progetti possibili, è un progetto che che si traduce in qualcosa che può avere luogo nel mondo. Qualcosa che può aver luogo non in un mondo ideale, ma in quel sito, in quel tempo. Così c’è una Torre di Pisa, la migliore delle torri possibili, nel 1100, c’è la torre del 1200, la torre del 1300, la torre del 1800, la torre del 1900, la torre del 2000.
La storia Torre di Pisa ci parla di ambiente: il cedimento del terreno dipende dalla natura del terreno di quel luogo. Non serve nemmeno parlare, anche con grande precisione tecnica, di argilla molle normalconsolidata: già questa è una generalizzazione che mi allontana dall’ambiente. Io devo costruire la torre lì, in quel momento. solo quella può essere la Torre di Pisa.
La storia della Torre di Pisa ci parla di tecnologia: la tecnologia per costruire la torre in quel luogo, nel momento in cui è iniziato il lavoro, è stata sfruttata fino al limite. Ma non era sufficiente per portare a termine il progetto. La tecnologia di cent’anni dopo, e di duecent’anni dopo, ha permesso di vedere le cose in modo diverso. Così come la tecnologia della fine del millennio. Ogni volta la Torre è stata vista in modo diverso, ogni volta è stato possibile pensare soluzioni prima impensabili.
La storia della Torre di Pisa ci parla di scopo: lo scopo può essere raggiunto solo con approssimazione. Scopo è alla lettera ‘bersaglio’, e basta dunque pensare a come, osservata da vicino, l’idea stessa del bersaglio ci appare diversamente leggibile. Ci sono bersagli mobili e fissi, bersagli visibili e non visibili, così come bersagli defilati al tiro, perché protetti da una massa coprente. E se anche guardiamo al bersaglio da tiro a segno vediamo un sistema di cerchi concentrici e di sezioni. Posso colpire in luoghi diversi il bersaglio, ed in ogni caso l’ho centrato. Non riuscirò mai in ogni caso a colpire perfettamente il centro del bersaglio. E non si vede perché sprecare risorse tentando di avvicinarsi più di tanto a questo comunque irraggiungibile centro.
Così è la Torre di Pisa, come ci è dato di vederla: la torre è realizzata, edificata, lo scopo è stato raggiunto. Sia pur a prezzo della rinuncia ad un aspetto che il progetto sulla carta considerava indiscutibile: la verticalità. Ma questo limite ci appare ora, addirittura, come un pregio. La storia della Torre di Pisa ci parla del ‘senno di poi’: solo con il senno di poi, che è frutto di giudizi e letture diverse, frutto dell’interpretazione di persone diverse, interpretazioni svolte in luoghi ed in tempi ed in contesti culturali diversi, imprevedibili a priori, anche esterni al campo che il  Project Manager può governare, si può capire cosa è il progetto.
Il progetto inizia a rivelare se stesso, inizia a svelare i suoi segreti, quando si smette di lavorare sulla carta. Il progetto si rivela solo durante il lavoro di realizzazione. Il progetto appare chiaro solo dopo. Solo dopo ci si può accorgere di cosa abbiamo fatto, solo dopo si può narrare, raccontando come ci si è mossi. Non si può fare la storia del presente, il presente può essere solo vissuto. Solo quando il lavoro di progettazione è terminato, e il progetto si è trasformato in cosa, la cosa può essere usata. Solo nell’uso si comprende l’essenza della cosa.
Anche l’estetica del progetto è emergente: siccome siamo vittime di una certa idea di progetto, che ci porta ad intendere la bellezza come conformità alla previsione, di fronte all’incontestabile bellezza della torre si è anche tentato di sostenere che il progetto pre-vedeva una Torre pendente.
Invece, la torre, così come ci è dato di vederla, è nata dall’impossibilità di far altrimenti: pur di arrivare abbastanza vicini allo scopo, si sono dovuti accettare scostamenti dal progetto, scostamenti vissuti con senso di frustrazione, delusione e colpa. Eppure ciò che appariva -nei momenti in cui non si è potuto fare altrimenti che adattare il progetto alla situazione- rinuncia, difetto, limite, appare oggi ai nostri occhi ‘vantaggio competitivo’ della Torre rispetto ad ogni altra torre.


1 - Francesco Varanini e Walter Ginevri (a cura di), Il project management emergente. Il progetto come sistema complesso, Guerini, novembre 2009. Il libro contiene contributi di Francesco Varanini, Gianluca Bocchi, Fernando Giancotti, Alberto De Toni, Luca Comello. La seconda parte, più strettamente relativa al governo del progetto, è stata scritta da: Bice Dell’Arciprete e Andrea Pinnola (project narration), Mariù Moresco e Carlo Notari, (stakeholders’ worlds), Livio Paradiso e Michela Ruffa (systemic scope), Stefano Morpurgo (collective leadership), Roberto Villa (risk vs compliance), Alessandra Noris e Diego Centanni (propitious time), Bruna Bergami e Walter Ginevri (value of redundancy).

2 - Progetti e complessità 2009

3 - Enzo Carli, ‘Il campanile’, in Il Duomo di Pisa, a cura di Enzo Carli, Nardini, Firenze, 1989

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